Risalendo il vicolo vedo
una porta aperta,
la scura luce della canna arrugginita di un fucile
e un sacchetto di plastica, appeso.
Dentro il sacchetto ci sono coca, erba, crack e pastiglie.
Il volto del venditore in chiaroscuro non lo vedo
ma so che è molto giovane.
Me l’hanno detto e lo sento.
E poi avevo già incontrato un suo collega,
in piedi sul picco della scalinata con un sacchetto di plastica appeso accanto,
senza fucile.
Un adolescente. Da quella postazione si godeva il paesaggio,
i palazzi di São Conrado e il mare.
Il rumore delle onde è un basso continuo. Lo senti quando chiudi gli occhi.
Sussurra frasi contraddittorie,
morti inutili,
distanze sociali tipicamente locali,
conflitti regionali insignificanti.
A Rio niente è serio, nemmeno la morte.
E io di nuovo vengo risucchiato,
assorbito, inglobato.
Non riesco a pensare.
L’unica occupazione interessante è
insegnare le tabelline a quattro ragazzi
in una scuola della favela
a pochi metri dalla casa in cui
ho visto il fucile,
il sacchetto e un’ombra, profilo di qualcuno o
qualcosa, un’entità forse o un mostro da videogame
di pelle liscia e scorrevole, sinuosità da rettile, ironia da iena.